Soldati a Haskanita OAU stati uscisi dell rebeli Darfuriani.I-1. L’operato del Consiglio di Sicurezza nella soluzione della crisi interna nel Sudan
Il CdS qualifica la crisi interna sudanese come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali ([57]). È pur vero che il CdS gode di un’ampia discrezionalità nel delineare se una situazione costituisca una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali, per poi eventualmente adottare delle misure idonee al caso esaminato ([58]).
Tuttavia, se si rimane (come si dovrebbe) strettamente legati allo Statuto delle Nazioni Unite, un conflitto intestino potrebbe configurare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali solo quando evolutivamente si trasformi in un conflitto internazionale (es., estensione di un conflitto interno in un altro paese). Solo in questa ipotesi sarebbe del tutto legittimo che il CdS agisse ai sensi del cap. VII del suo Statuto.
È pur vero che dalla prassi precedente ([59]), ma soprattutto di questi ultimi anni, emerge una tendenza del CdS ad interpretare la nozione di minaccia alla pace in modo estensivo come se fosse materia acefala (o materia fluida), e tale da costituire un contenitore che via via è riempito a seconda della valutazione che viene fatta di una determinata situazione da parte del CdS ([60]).
Probabilmente la frase “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali”, in questo caso – anche se il CdS sembra non imputare una piena responsabilità-complicità al governo sudanese per le incursioni di milizie incontrollate per i fatti che emergono dalla risoluzione 30 luglio 2004, n. 1556 ([61]) - si riferisce alla constatazione che alcune milizie janjaweed del Sudan hanno fatto incursione nei territori del Ciad ([62]).
Non potrebbe essere diversamente poiché un’interpretazione della Carta di San Francisco (come dovrebbe essere) non consente, a nostro parere, un’applicazione delle misure restrittive di natura economica (al Sudan) per violazione dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario (come sembra emergere dalle risoluzioni del CdS/Sudan che fondano l’utilizzo del cap. VII della Carta su tali violazioni). La posizione che gli organi delle Nazioni Unite dovrebbero assumere in materia dei diritti dell’uomo è solo quella di promozione e non di “repressione”.
Lo Statuto delle Nazioni Unite, così com’è strutturato attualmente, non prevede l’ingerenza umanitaria (non prevista nella Carta) ([63]) ad appannaggio (o in deroga) di (ad) un principio incardinato nell’art. 2, par. 7, dello Statuto/ONU (principio della non ingerenza negli affari interni di uno Stato) ([64]) - e ribadito in dichiarazioni di principi dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite ([65]) - che inibisce l’attività dell’ONU in presenza di materie rientranti nella c.d. domestic jurisdiction (e tra le quali la gestione del rapporto Stato-sudditi, scelte del governo nel reprimere insurrezioni).
Sull’applicazione a scacchiera delle missioni di pace (o dell’ingerenza umanitaria) si è occupata anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite rilevando, con inquietudine, che il Segretario generale “n’ait pu qu’avec retard déployer certaines missions de maintien de la paix récentes, en Afrique en particulier, et les doter de ressources nécessaires” ([66]) e sottolineando che tutte le “missions de maintien la paix, en cours et futures, doivent être traitées de la même manière, sans discrimination, pour ce qui est des arrangements financiers et administratifs” ([67]). Per questo si sottolinea che qualsiasi missione di mantenimento della pace non dovrà essere finanziata con i fondi (non impiegati) stanziati per le altre missioni di pace ([68]).
Se consideriamo che gli Stati membri delle Nazioni Unite sono circa 190 e che circa un terzo di questi, secondo il Rapporto della Freedom House (organizzazione americana indipendente che si occupa del monitoraggio del grado di libertà esistente nei vari paesi) ([69]), sono da annoverarsi come forme di governo dittatoriale, l’intera ONU considera questa componente compatibile con i requisiti di ammissione (e permanenza) richiesti per entrare a far parte dell’organizzazione (o per mantenere lo status di membro).
In buona sostanza la presenza dei c.d. “Stati dittatoriali” sono condivisi dagli altri Stati membri c.d. democratici proprio perché si è tenuti a tener fede a quel principio fondamentale (principio della non ingerenza negli affari interni di uno Stato e “cristallizzato” nell’art. 2, par. 7, della Carta delle Nazioni Unite ([70]) e ribadito in numerose dichiarazioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di Sicurezza) che a nostro parere è stato codificato dai redattori dello Statuto ONU come “norma sentinella” affinché nessun Stato membro, o le stesse Nazioni Unite, potesse avocarsi il diritto di entrare in merito alle questioni interne di uno Stato, per poi criticare la forma di governo attuata, le scelte di politica economica e il trattamento riservato ai sudditi, o magari utilizzarle (le critiche) come pretesto per giustificare azioni unilaterali (o di legittima difesa preventiva) illegittime o per interessi economici ([71]) com’è avvenuto, ad esempio, con la seconda guerra nel Golfo tutt’ora in corso.
Un principio che è stato consacrato nella Carta delle Nazioni Unite proprio per evitare tensioni tra Stati dovute a critiche di natura politica allo scopo di screditare un paese, per rispettare le diverse forme di governo, evitando discriminazioni di trattamento sulla base delle scelte governative di ogni Stato, perché si evitasse che ogni Stato si avocasse il diritto di “togarsi” per giudicare sulle questioni interne di un altro Stato, per impedire che pretestuose accuse promananti da uno o più Stati facessero da volano per l’adozione di misure restrittive nei confronti di un paese che viene ritenuto “scomodo” da chi lo accusa (vedi Iraq).
La forma di governo dittatoriale, che certamente non è morbido con i propri sudditi, è condivisa (almeno) nel quadro ONU visto che, come si è detto, una parte cospicua di Stati “dittatoriali” costituisce l’organizzazione la quale, se ritenesse esistente la violazione dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale umanitario da parte di uno Stato membro come una violazione persistente dello Statuto stesso, avrebbe il diritto di espellere un paese (contraente) dalla stessa organizzazione ai sensi dell’art. 6 ([72]).
Non sembra che ciò sia mai accaduto. Si sono adottate poche risoluzioni di condanna (contestabili) da parte del CdS che ha posto in essere misure di pressione, ai sensi dell’art. 41 della Carta delle Nazioni Unite ([73]).
Occorre infine aggiungere alcune considerazioni sulle modalità di spiegamento della Missione delle Nazioni Unite nel Sudan (MINUS). Questa è stata istituita, come si è detto, con la risoluzione del CdS 24 marzo 2005, n. 1590 e opererà nel Sudan, come da ultimo atto ufficiale acquisito (Risoluzione CdS 29 marzo 2006, n. 1655, par. 1), sino al 29 settembre 2006.
Se consideriamo che il mandato della MINUS (è stato prorogato una prima volta fino al 24 marzo 2006 (con la Risoluzione CdS 23 settembre 2005, n. 1627, par. 1) e in successive sedute del CdS, siamo certi che la MINUS appariva già dal marzo 2005. A ciò va aggiunto che l’Assemblea generale si è occupata con la Risoluzione 21 aprile 2005, n. 59/292 (e in successive deliberazioni) del finanziamento della Missione delle Nazioni Unite.
In virtù dell’accordo tra il governo del Sudan e l’ONU relativo allo status della Missione delle Nazioni Unite in Sudan del 28 dicembre 2005 ([74]), si consente solo la presenza di personale (attualmente circa 10.000) e non militare nel territorio sudanese. In virtù dell’accordo (del 28 dicembre 2005) la MINUS non può svolgere un’operazione di mantenimento della pace. Ha il ruolo essenziale di verificare l’applicazione del cessate-il-fuoco previsto dall’Accordo di pace concluso il 9 gennaio 2005 tra il governo sudanese e l'Esercito di liberazione popolare del Sudan (SPLA, il principale dei movimenti politico-militari indipendentisti del sud del Paese). Ma anche di assistere la Missione dell’Unione Africana presente nella regione.
Se da un lato la diplomazia e l’ONU premono per uno spiegamento di forze militari ONU e l’attribuzione alla MINUS di un mandato per il mantenimento della pace e quindi per un avvicendamento alla MUAS (forza di pace africana) - come il CdS auspica in alcune risoluzioni analizzate sopra – il governo sudanese, a tutt’oggi, ha sempre rifiutato una tale possibilità ([75]).
Com’è noto, un’operazione di mantenimento della pace/ONU nel territorio di un paese indipendente e sovrano, può essere consentito – secondo quanto emerge anche dalla prassi delle Nazioni Unite - dopo che il paese (o le parti coinvolte in un conflitto intestino), nel quale dovrebbe operare una peace-keeping, abbia espresso (abbiano espresso) liberamente il proprio (loro) consenso.
Solo il consenso espresso può derogare al principio del non intervento – che risulta indissolubile dal principio della non ingerenza negli affari interni di uno Stato incardinato dall’art. 2, par. 7, della Carta di San Francisco ([76]) - e a far sì che l’ingresso di personale civile/militare in un paese sovrano ed indipendente ([77]) non assuma la forma di un atto di aggressione. Perché un intervento umanitario (in virtù della prassi) possa essere legittimato, dev’essere preceduto da un consenso (o richiesta) espresso(a) dallo Stato territoriale il quale, fino a prova contraria, esercita il proprio “imperium” sulla comunità stanziata nel proprio territorio.
Il requisito indispensabile del previo consenso dello Stato, oltre a riscontrarsi nella prassi consolidata, è previsto in alcune convenzioni internazionali ([78]) e, altresì, da un Rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite ([79]).
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