
Testo originale Italiano
64esima Assemblea Generale dell'Onu. La parola ai dittatori
di Anna Bono
bono@ragionpolitica.it
mercoledì 30 settembre 2009
Quando il presidente dell'Eritrea, Isaiah Afewerki, rimprovera alle Nazioni Unite di non essere capaci di prevenire le crisi, assicurare la pace, combattere la povertà e difendere i diritti umani, in sostanza le accusa di non riuscire a proteggere l'umanità da regimi come il suo. Lo stesso discorso vale per i tanti altri leader che infieriscono sui propri connazionali, imponendosi su di loro con la forza, derubandoli delle ricchezze nazionali e condannandoli a uno stato permanente di indigenza, ma che puntualmente ogni anno partecipano ai lavori dell'Assemblea Generale dell'ONU pronunciando discorsi virtuosi di pace e giustizia e reclamando più potere, come se il problema dell'inefficienza del massimo organismo internazionale dipendesse tutto dal loro peso limitato in sede decisionale.
L'ordine internazionale determinatosi dopo la fine della seconda guerra mondiale «non è riuscito a garantire la pace e la sicurezza del pianeta», ha spiegato il 28 settembre alla 64esima Assemblea Generale riunita in questi giorni al Palazzo di Vetro di New York il ministro degli Esteri eritreo, Osman Saleh. «Questo antiquato ordine mondiale è stato dirottato per servire gli interessi di pochi... Strutture economiche che hanno saccheggiato ricchezza e risorse a interi popoli e nazioni sono state consolidate, mentre metodi illegali militari e coercitivi si sono estesi». Ecco perché, secondo Saleh, «le Nazioni Unite dovevano avviare un processo di rinnovamento almeno 20 anni fa in concomitanza con la fine della guerra fredda».
Il paradosso è che, di sicuro, un contributo all'estensione dei «metodi illegali militari e coercitivi» lo ha dato proprio il dittatore eritreo Isaiah Afewerki, al potere dal 1993 (anno dell'indipendenza del paese dall'Etiopia): egli non solo non si è dedicato a mettere a frutto le risorse nazionali e a impiegare con profitto i cospicui aiuti internazionali regolarmente pervenutigli, ma nel 1998 ha aperto le ostilità con l'Etiopia per irrilevanti dispute sul tracciato della frontiera che divide i due Stati, impegnando per due anni in una guerra inutile e rovinosa i giovani già costretti a periodi di leva interminabili, che lasciano decine di migliaia di famiglie in costante difficoltà. Perciò, e non per altro, l'Eritrea occupa il 157° posto (su 177 Stati considerati) nell'ultimo Indice dello sviluppo umano, la classifica compilata ogni anno dall'Agenzia per i programmi di sviluppo delle Nazioni Unite.
E che dire del presidente del Sudan, Omar Hassan el Bashir? Per lui il 29 settembre ha parlato all'ONU il suo consigliere, Ghazi Salahuddin, il quale, anche a nome del G77, l'organismo quest'anno presieduto dal Sudan che riunisce 131 Stati per lo più in via di sviluppo, ha dichiarato: «La marginalizzazione dei paesi in via di sviluppo nei processi decisionali ha contribuito alla diffusione ed esasperazione dell'attuale crisi... che rischia di vanificare gli sforzi dispiegati negli ultimi dieci anni per contrastare malattie e povertà; la politica dei due pesi e due misure ha contribuito a rendere il mondo un posto meno sicuro acuendo il divario tra paesi ricchi e poveri». El Bashir non si è presentato a New York per non rischiare di essere arrestato e consegnato alla Corte Penale Internazionale dell'Aia, che nel 2008 ne ha chiesto la cattura, dopo averlo incriminato di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra per le violenze perpetrate in Darfur dal 2003, violenze che si aggiungono a quelle commesse ai danni di milioni di altri sudanesi a partire dal 1989, quando el Bashir ha avviato la sua politica di arabizzazione, accanendosi dapprima con gli abitanti delle regioni meridionali del paese. A questo proposito Salahuddin ha affermato che l'incriminazione della Corte Penale Internazionale non ha giovato «né alla pace né al popolo di una regione che ha lungamente sofferto». Ma se le popolazioni del Darfur hanno «lungamente sofferto», se per i sudanesi in generale il mondo è un posto «meno sicuro» e se, malgrado i giacimenti di petrolio, sopravvivono a stento, lo devono non alla Corte Penale né a un ordine mondiale iniquo e sbilanciato, ma alla spietata mano del loro leader.
Se l'Assemblea Generale esprimesse corale riprovazione ai discorsi dei rappresentanti dei regimi autoritari che imperversano violando le regole democratiche e civili, almeno servirebbe a qualcosa: invece alla fine di ogni intervento, comunque sia, applausi e strette di mano.
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