Tuesday, 15 January 2008

Mille e una Khartoum


Sudan

Sudan - Khartoum - 14.1.2008
Mille e una Khartoum
Viaggio nella capitale del Sudan, tra voglia di vita e vecchi problemi
scritto per noi da
Angela Zanella

Mohamed a Khartoum sta bene. E’ giovane, fa l’autista del “taxi” (un furgoncino a sei posti) un po’ scassato ma pulito, e con il suo lavoro guadagna abbastanza per vivere in modo decoroso. E’ simpatico e cordiale, ci racconta di sé e del suo cruccio di non avere una fidanzata. “Prima ce l’avevo, poi però ci siamo lasciati. Io sto bene anche così, ma so che devo trovare una ragazza. Non sta bene non avere una donna da sposare. Qui le donne dopo il matrimonio non lavorano più, stanno a casa. E da voi, in Italia? Lavorano?!” Non riesce a trattenere lo stupore e un sorriso di fronte alla nostra risposta affermativa.

A Khartoum è vietato fare foto. Qualcuno si lascia immortalare, ma se vuoi catturare delle immagini della città lo devi fare di nascosto, in velocità. Tutto è veloce, nelle strade ci sono tante macchine, tanto smog, tanta gente. La gente, però, si muove lenta, come se non avesse fretta di arrivare, o non sapesse dove andare. Su internet si trovano foto di Khartoum, ma nessuna mostra lo sporco delle vie, i bambini di strada che ti chiedono l’elemosina evitando le auto di lusso di chi si è arricchito, le baracche a pezzi di fianco ai palazzi in costruzione. Non c’è foto che renda il caldo che ti avvolge e ti stordisce quando scendi dall’aereo, la sabbia che ti si appiccica addosso appena esci di casa, che respiri e che ti colora scarpe e vestiti.
Ad Alì, la città sta stretta. Frequenta l’università ed insegna alla scuola secondaria; vorrebbe andarsene dal suo Paese, che non gli offre possibilità di crescere professionalmente. Ma per emigrare, oltre ai soldi, ci vogliono i documenti, e ben pochi sudanesi hanno il passaporto. Khartoum è una città complessa, di quelle che sfuggono alle classificazioni e alle semplificazioni. In questo è la degna capitale del Sudan, e della sua gente. Quando pensi di averla capita, ti sorprende di nuovo e ti costringe e rimettere tutto in discussione.
Lo skyline di Khartoum è scandito da edifici bassi e case di due-tre piani, tra cui spiccano numerosi e slanciati minareti. Di sera vengono illuminati da luci al neon che fanno sembrare la capitale un incrocio tra un parco giochi anni Cinquanta e la versione africana di Las Vegas. Di giorno, invece, le moschee danno una sensazione di stabilità nel caos urbano, sono dei punti di riferimento ben precisi. Chi si muove per la prima volta a Khartoum può orientarsi grazie ai minareti.

Afaf mi guarda come se fossi un bambino ingenuo. Le mie domande sul Corano le strappano un sorriso tenero, di chi con pazienza spiega cose scontate. E si stupisce che per me non sia lo stesso, è tutto così semplice ai suoi occhi.
A Khartoum le ragazze sono quasi tutte coperte. Chiedo a Fatma perché non porta quella bella camicia senza maglia sotto. “Si vede il polso” mi dice. Fatma è allegra e caparbia. Giriamo per negozi alla ricerca di giocattoli per i bambini del Salam Centre, contratta con tutti, gli uomini cedono uno ad uno davanti alla sua parlantina.
Leyla un giorno ci ha dato un passaggio in macchina. Occhiali a maschera, capelli trattenuti da forcine, maglia stretta con maniche a tre-quarti, jeans. E’ così diversa dalla maggior parte delle ragazze di Khartoum. “Sono tante ad essere come lei” mi dice Amina, con il suo velo arancione. “Siete voi che vedete solo le altre.”
Ci sono donne che portano un velo colorato abbinato alla gonna lunga. Donne nascoste dietro alla stoffa nera che le copre tutte, tranne gli occhi. Alcune indossano anche i guanti e le calze. Ne incontriamo una in un ristorante. Il marito mangia, lei si fa portare la cena in un sacchetto, lo sguardo basso. Ne incontriamo altre due al luna park. Salgono sull’ottovolante, il velo si alza impertinente mentre la giostra gira. I loro occhi incontrano i nostri. Sorridono divertite. Ci sono donne al volante, donne che studiano, donne che lavorano.
Ci sono donne che attendono lo sposo promesso, che scelgono l’amore e girano per la città sfiorandosi tra la gente. In questa città dove è vietato girare per mano tra maschi e femmine, ma dove è ancora possibile innamorarsi.

C’è voglia di vita, a Khartoum. Di vivere ogni giorno. C’è energia., voglia di stare bene.
Non sempre si può. Sono molti gli sfollati che vivono in città, la maggior parte al campo profughi di Mayo. E’ un sovrapporsi di varia umanità: chi viene dal sud, chi dal Ciad, chi dal Darfur, chi da altre parti del Sudan. Sono almeno 200mila. La convivenza forzata non sempre è ben tollerata, non è facile andare d’accordo quando il fattore comune è la miseria, lo sradicamento, la perdita.
E’ qui, alla clinica pediatrica di Emergency, tra tutti questi bambini che nonostante tutto sorridono e giocano, che senti la prepotenza della vita che si fa avanti, comunque.
Qui ho conosciuto Richard, infermiere. E’ di Juba, è cristiano. “Non troverò mai un posto negli ospedali pubblici, a Khartoum. Ma non voglio rinunciare alla mia fede, e mi piace aiutare questa gente.” Judith, anche lei della capitale del sud, fa la donna delle pulizie. A Khartoum non si trova male, “ma penso ogni giorno a Juba. E’ la mia città. Questo non è il mio posto, non è il mio Paese.” Ho incontrato anche Nur, 28 anni e cinque figli. Viene dal Ciad, si è trasferita qui quando era piccola, con i genitori. Ha sposato un ragazzo ciadiano che lavora in città e alla sera torna a Mayo. “Non tornerò mai nel mio Paese, preferisco stare qui, Khartoum ha dato lavoro prima a mio padre e ora a mio marito. Ci ha dato una possibilità.”
Khartoum è una città che svela a poco a poco le sue carte, che come un abile giocatore sa bluffare e stupirti, puntando sulle sue contraddizioni.

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